Il ruolo della pubblicità nella comunicazione d’impresa

18 · 7 · 16

I più diffusi luoghi comuni sulla pubblicità

La pubblicità è una delle componenti più importanti della comunicazione di cui l’azienda può disporre per lo sviluppo e il supporto alle proprie strategie di marketing.

Purtroppo nei confronti della pubblicità sono molto diffusi, anche tra gli addetti ai lavori, alcuni luoghi comuni che nel migliore dei casi ne fraintendono le caratteristiche e le potenzialità, e nei casi più gravi ne distorcono il ruolo e la funzione che essa può avere se correttamente utilizzata.

Tali luoghi comuni possono essere così riassunti:

  • la pubblicità è in grado di creare bisogni;
  • la pubblicità usa “trucchi” per sorprendere l’ignaro consumatore e convincerlo ad acquistare;
  • in virtù di questo suo potere seduttivo la pubblicità fa aumentare i consumi e moltiplica gli atti d’acquisto;
  • la pubblicità dunque è onnipotente, perché condiziona i comportamenti;
  • quindi, tanto più si spende in pubblicità, tanto più aumenteranno le vendite.

Non c’è nessuna evidenza empirica che dimostri come questi luoghi comuni, sebbene radicati nell’opinione di molti, abbiano una loro validità nei fatti.

Sul fatto che la pubblicità crei nuovi bisogni il dibattito, che dura da qualche decennio, non è mai arrivato ad un punto fermo ed incontrovertibile. Ciò che si può affermare è che la pubblicità faccia leva, in effetti, sui bisogni (primari o evoluti) dell’individuo, ma far leva sugli esistenti non significa crearne di nuovi.

Sui trucchi della pubblicità si può solo affermare che essa è talvolta fin troppo scoperta ed ingenua nei suoi meccanismi persuasivi, rispetto ad esempio ai “grandi discorsi” sulla morale, la politica o la religione.

Sulla capacità della pubblicità di indurre i consumi basterebbe confrontare l’andamento degli ultimi vent’anni di investimenti pubblicitari con l’andamento dei principali indicatori economici per rendersi conto che la pubblicità ha seguito e non anticipato le varie fasi del ciclo.

Anche se a parole molti affermano che la pubblicità dovrebbe avere una funzione anticiclica, e stimolare quindi la domanda, in realtà in fase di recessione le imprese, tra le prime voci di spesa, tagliano proprio gli investimenti pubblicitari, e in fase di espansione gli investimenti riprendono dopo che l’economia ha ricominciato a correre.

Figuriamoci dunque se la pubblicità è onnipotente ed in grado di modificare nella loro struttura i comportamenti sociali e di consumo. Può far preferire una marca rispetto ad un’altra, contribuisce a costruire l’immagine, orienta le scelte, ma certamente non è in grado di imporre consumi che non rispondano a qualche tipo di bisogno.

Sono invece evidenti nella storia anche recente di molte imprese le conseguenze spesso disastrose delle scelte e delle prassi conseguenti a tali luoghi comuni. Infatti, se fosse vero in modo e misura automatica che a maggior spesa corrisponde maggior effetto, la strada obbligata sarebbe quella di destinare agli investimenti pubblicitari una cifra tendenzialmente infinita per aumentare il proprio livello di vendite.

Per la piccola impresa (ma anche per la media e la grande), impegnare budget spropositati in pubblicità comporta un evidente squilibrio economico. E allora, poiché la maggior parte delle piccole imprese non dispone delle risorse finanziarie per poter sostenere tale impegno, l’imprenditore afferma che nel suo caso risulta più conveniente rinunciare alla pubblicità, magari autoconvincendosi, un po’ obtorto collo, che essa non serva, salvo poi pretendere di uscire con una dispendiosa campagna quando qualche soldo è stato messo da parte o è disponibile.

La maggior parte delle volte le campagne (stampa o tv locali che siano) che hanno questa origine sostanzialmente emotiva sono destinate ad un completo insuccesso.

Non va infatti mai dimenticato che la pubblicità fa parte del mix di marketing, e da sola non è in grado di sopperire alla mancanza di un’offerta adeguata, o a una corretta politica di pricing, o ad una insufficiente capacità distributiva, e soprattutto ad una scarsa o solo presunta conoscenza del proprio mercato.

Pretendere di “parlare a tutti purché acquistino” è l’indicatore più evidente di come non si conosca il proprio mercato, e di come un approccio marketing sia del tutto sconosciuto ed assente da parte di chi lo afferma. Ma ancora più grave è non rendersi conto che la pubblicità, e in generale la comunicazione dell’impresa, ha in realtà un valore strategico, di lungo ma anche di medio e di corto periodo, e che quindi va pianificata e gestita in funzione di una precisa strategia di sviluppo della propria attività.

Torneremo in seguito su questo concetto, e sulle implicazioni pratiche che ciò comporta in termini di ruolo e missione della pubblicità per l’impresa. Intanto approfondiamo il perché dei numerosi luoghi comuni che circondano la pubblicità, poiché è solo dalla necessaria chiarezza su ciò che essa può effettivamente fare (e non fare), che ne deriva un suo uso corretto e proficuo.

La pubblicità ha una lunga storia alle proprie spalle. I suoi fondamenti si trovano in forma scritta già nella Téchne rhetorikè di Aristotele, ma anche le civiltà monumentali precedenti conoscevano il significato e praticavano la pubblicità:

che cosa sono infatti le piramidi, ad esempio, se non la pubblicità alla potenza del faraone?

È comunque solo a partire da fine ‘800 – inizio ‘900 che la pubblicità diventa un fenomeno di rilievo, in grado di coinvolgere direttamente la maggior parte degli individui che vivono e fanno parte delle società industrializzate. Prima con i manifesti, poi con lo straordinario sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (la radio e in seguito la televisione) la pubblicità diventa uno strumento ampiamente diffuso e utilizzato.

La possibilità di contattare molte persone in contemporanea, utilizzando appunto i mezzi di comunicazione di massa, ha favorito la crescita esponenziale del fenomeno pubblicità, e anche il sorgere di una serie di teorie sul suo presunto funzionamento che l’hanno fatta apparire, a seconda dei punti di vista, come il toccasana per incrementare le vendite (“la pubblicità è l’anima del commercio” è uno dei luoghi comuni più banali e diffusi) o come il demonio da cui rifuggire perché in grado di corrompere e stravolgere l’anima di chi vi è esposto.

Al formarsi di una immagine distorta di ciò che la pubblicità è in grado di fare hanno contribuito, purtroppo e non poco, anche molti addetti ai lavori che di volta in volta hanno presentato teorie o applicazioni definibili per lo meno come bizzarre, frequentemente con una patina di presunta scientificità o appoggiandosi a filoni in quel momento di moda.

Dagli anni ’50 in poi, per esempio, si è preteso di applicare alla pubblicità alcuni concetti derivanti dalla psicologia, per altro da parte di chi psicologo non era.

Poter dire che la pubblicità interviene sul subconscio, o condiziona le menti, o induce reazioni volute a seguito di una serie di stimoli iterati, magari subliminali, certamente colpisce la fantasia in primo luogo dei possibili investitori pubblicitari, e poi di chiunque entri in contatto in qualche modo con questo mondo della pubblicità che non di rado si è presentato connotandosi più come una comunità di apprendisti stregoni che di professionisti.

Del resto molti pubblicitari hanno favorito, con i propri comportamenti, il consolidamento di questa immagine della pubblicità come di uno strumento tutto sommato misterioso ma di massima potenza, la moderna bacchetta magica, in grado di condizionare e manipolare la volontà dei destinatari della comunicazione da essa veicolata.

Non sono mancati inoltre più o meno illustri teorici che hanno affermato, a vario titolo, il potere taumaturgico della pubblicità, sia sul versante di chi ne faceva un’apologia per affermarne la validità sul piano del business, sia viceversa da parte di chi invece ne ha messo in rilievo gli aspetti negativi in termini di influenza sui comportamenti sociali.

I principali riferimenti teorici sulla presunta onnipotenza della pubblicità, qui illustrati necessariamente in breve e per la cui trattazione estesa si rimanda all’ampia letteratura disponibile in proposito per chi volesse approfondire, sono sostanzialmente la teoria dello stimolo-risposta, poi ampliata e completata dalla teoria dei riflessi condizionati, e le teorizzazioni derivanti dalla psicoanalisi, che hanno anche successivamente generato un filone applicativo particolare definito come “pubblicità subliminale”.

 

La teoria dello stimolo-risposta e dei riflessi condizionati

Il principio di questa teoria si basa sui quattro concetti fondamentali di impulso, stimolo, risposta e rinforzo. L’impulso è la “forza interna” più urgente, che spinge all’azione (fame, sete, dolore, sesso, e così via). L’impulso è generico, e la risposta avviene solo in presenza di determinati stimoli. Lo stimolo è più debole, e proviene dall’ambiente esterno. Ad esempio, se ho sete (impulso) e vedo in televisione la pubblicità di una birra (stimolo), potrei alzarmi, andare al frigorifero e aprire una lattina (risposta).

La risposta dunque è la reazione dell’organismo a una certa configurazione di stimoli. Ma gli stessi stimoli non provocano la stessa risposta nello stesso individuo in ogni momento. Proseguendo nell’esempio potrei, invece di bere una lattina di birra, scegliere l’aranciata, o il caffè, o l’acqua …..

Ecco che allora, nel modello stimolo-risposta, si introduce il rinforzo, vale a dire quell’effetto che si ottiene se una particolare risposta ottenuta in passato, a seguito di un impulso e di uno stimolo, è stata particolarmente gratificante ed è quindi stata in grado di ridurre e soddisfare l’impulso.

In altri termini, se in passato ho gradito la birra, e in particolare quella marca, si sedimenta un rinforzo dell’esperienza positiva, che tende quindi a diventare un’abitudine al consumo di quel determinato prodotto. Il rinforzo può indebolirsi, o addirittura scomparire, se intervengono esperienze negative (il gusto della birra che cambia, per esempio), oppure se gli stimoli non sono costanti e continuativi.

Da qui l’implicazione, per la pubblicità, di dover mantenere una costante “pressione” di stimoli nei confronti del consumatore, mediante la riproposizione iterata dei messaggi pubblicitari, per condizionare le risposte e mantenere un elevato livello di rinforzo a favore di un certo prodotto. Quel che si dice “campagne martellanti” e ripetute nel tempo.

Ma la pubblicità funziona davvero così?

Stante la ripetitività di certe campagne, e la loro intensità, qualcuno parrebbe ancora crederci, pensando che il consumatore scelga solo in base alla maggior intensità di impulsi ricevuti, come se fosse una lampadina che si accende quando c’é la corrente elettrica e si spegne quando viene girato l’interruttore.

A parte il fatto di considerare in modo meccanicistico il comportamento umano, questo modello dà per scontato che le scelte di acquisto e di consumo avvengano in modo del tutto lineare, senza che intervengano nel frattempo altri fattori “esterni”, tra cui la soggettività del consumatore, l’ambiente di riferimento, le proprie conoscenze, e così via.

La teoria dello stimolo-risposta non considera cioè un terzo elemento fondamentale, vale a dire la personalità del consumatore, che agisce da “filtro” nei confronti delle sollecitazioni ricevute. Ciò non toglie che si tratti di un approccio suggestivo, che per molto tempo ha influenzato il modo di intendere la pubblicità, anche dal punto di vista della sua critica.

 

La psicoanalisi al servizio della pubblicità

A differenza della teoria precedente tutte le varie interpretazioni e applicazioni della psicoanalisi in pubblicità pongono l’essere umano al centro del modello, ma lo fanno per metterne più in evidenza le speranze, i sogni e le paure che le sue capacità cognitive, culturali, sociali.

Analoghe sono comunque le conseguenze verso il consumatore, considerato come soggetto passivo, destinatario di sollecitazioni all’acquisto che non è in grado di riconoscere consapevolmente e che non può “filtrare”.

L’applicazione della psicanalisi alla pubblicità si basa sostanzialmente sul concetto di subconscio, cioè quella parte della psiche non manifesta, costituente uno stato mentale “profondo” che condiziona i comportamenti e determina le azioni.

Secondo questo approccio le motivazioni dei comportamenti umani non sono facilmente scopribili da un osservatore esterno, e non sono nemmeno comprese a fondo da ciascuno di noi. Ad esempio, se ad un individuo chiediamo perché ha acquistato una costosa auto sportiva, ci dirà che l’ha fatto per le prestazioni o il design, ma se approfondiamo con opportune tecniche ci renderemo conto che l’ha fatto per impressionare i propri amici o per sentirsi più giovane. Se poi indaghiamo ancora più in profondità scopriremo, sempre secondo questo approccio, che la motivazione di fondo è il desiderio di gratificazione dei propri istinti sessuali frustrati.

Di conseguenza, la pubblicità deve agire sugli istinti primari, andare oltre le barriere convenzionali del super-ego e dell’ego, che controllano in modo socialmente accettabile tali istinti, e sollecitarne la soddisfazione tramite l’acquisto e il consumo di oggetti e beni in grado di superare le frustrazioni, le paure, i sensi di colpa che ognuno di noi vive a livello profondo.

La pubblicità ha dunque il compito di enfatizzare tali istinti, cercando di associarli al prodotto proposto, e richiamandoli anche in modo non esplicito. Da qui l’affermazione di una serie di stereotipi ever-green nella comunicazione pubblicitaria, utilizzati con innumerevoli varianti ma sempre riconducibili a pochi semplici elementi corrispondenti agli istinti di base: il sesso, il potere, il denaro, i cuccioli (umani o animali non importa, evocano comunque la tenerezza e il desiderio di immortalità), l’eterna giovinezza.

Per fare questo la pubblicità ha innanzi tutto bisogno di capire a quali istinti siano associati (o dissociati) i beni e i prodotti proposti, e di conseguenza ha la necessità di strumenti esplorativi che siano in grado di cogliere l’ego con la guardia abbassata. A questo scopo si è dunque sviluppato, a partire dagli anni ’50 e fino al passato più recente, il filone delle cosiddette ricerche motivazionali, il cui scopo è di cercare di capire appunto quali siano le motivazioni “profonde” nelle scelte di acquisto o di rifiuto di beni e prodotti.

Questo tipo di ricerche esplora le motivazioni tramite una serie di tecniche di colloquio e di domande mutuate dalla psicanalisi clinica, il più delle volte con un rapporto personale e diretto tra intervistatore e intervistato, più raramente con la realizzazione di colloqui di gruppo, talvolta ricorrendo a strumentazioni e macchine particolari, che hanno ad esempio lo scopo di misurare il livello di dilatazione della pupilla dell’occhio, oppure il battito cardiaco, quando si sottopongono agli intervistati stimoli visivi di vario genere.

Le ricerche motivazionali, così definite, non vanno comunque confuse con il ben più articolato e soprattutto operativo insieme delle ricerche qualitative, che hanno invece lo scopo molto concreto di comprendere come si svolge il processo d’acquisto e di quali fasi e soggetti si componga, oppure di indagare sulla comprensibilità, il ricordo, la decodifica dei messaggi pubblicitari. Il capitolo conclusivo di questo libro è dedicato alle tecniche di misurazione dell’efficacia della pubblicità e in quella sede si presenteranno anche le più diffuse e utilizzate ricerche di tipo qualitativo.

La critica maggiore all’efficacia della pubblicità basata sulle teorie psicanalitiche è proprio l’applicabilità di quanto rilevabile in termini di motivazione non al singolo individuo, ma all’insieme dei destinatari della comunicazione. È infatti altamente probabile che le motivazioni d’acquisto non siano univoche per ogni potenziale acquirente di un certo prodotto, o viceversa che la non accettazione derivi più da una serie di motivi che da uno soltanto riconducibile comunque e sempre a qualche sorta di istinto profondo.

In altri termini, se è vero che resistenze, paure o gratificazioni possono essere associate al consumo di certi prodotti, è anche vero che per altri soggetti potremmo scoprire che sono altre le paure, le resistenze o i motivi di soddisfazione.

Generalizzare quindi un modello di motivazione in grado di spiegare i comportamenti che sia valido per tutti i potenziali acquirenti di un determinato prodotto è quindi fuorviante, e rischia di far seguire alla pubblicità una strada poco proficua.

In ogni caso, comprendere le resistenze principali, più che le motivazioni, può essere utile per mettere a punto e affinare meglio l’offerta, ma qui siamo nel terreno della soddisfazione/insoddisfazione del cliente, decisamente distante da un approccio che pone invece al centro dell’analisi il mondo onirico o quello dei traumi infantili di un consumatore non conscio dei propri desideri.

Una variante alla pubblicità basata sulla psicoanalisi è costituita dalla cosiddetta pubblicità subliminale, che nella sua forma più semplice consiste nell’inserire un fotogramma con un invito all’azione (compra questo, mangia quello), non percepibile a livello conscio, all’interno di un filmato di tutt’altro argomento.

Nelle sue forme più raffinate consiste nell’inserire immagini o simboli che si riferiscono a qualcuno degli istinti primari all’interno di altri immagini, apparentemente “neutre”. Tali immagini nascoste non sono percepibili se non appunto a livello di subconscio, ma in realtà comunicherebbero al destinatario una precisa associazione tra l’immagine “neutra” e il significato di quella “nascosta”, facendo prevalere il richiamo di quest’ultima.

Sulla presunta efficacia di questa modalità di comunicazione pubblicitaria le perplessità sono giustamente rilevanti.

Intanto la soglia percettiva varia notevolmente da un individuo all’altro, e per altro non è mai la stessa nemmeno nella stessa persona. Inoltre, come afferma Moore, “se è vero che lo stimolo più forte esercita un’influenza maggiore dello stimolo più debole, gli stimoli subliminali sono talmente deboli che vengono facilmente annullati da altri stimoli che corrono sullo stesso canale sensoriale e l’attenzione è attratta da altre modalità. Queste circostanze pongono seri dubbi su qualsiasi possibile applicazione nel settore del marketing”.

Stimolo-risposta e psicoanalisi applicate alla pubblicità sono dunque modi di intendere le scelte del possibile consumatore per lo meno discutibili, ma sulla base di queste teorie si sono formati nel tempo i luoghi comuni sul presunto funzionamento della pubblicità di cui abbiamo parlato all’inizio.

Se questi due modelli non sono efficaci, qual è allora il meccanismo con cui funziona la pubblicità?

 

Il ruolo della pubblicità

Invece di pensare al possibile consumatore come un semplice destinatario del messaggio che va suggestionato o condizionato nei suoi comportamenti, l’approccio va completamente rovesciato.

La pubblicità va infatti intesa come una modalità di comunicazione nel complesso gioco dello scambio di informazioni tra chi offre (un prodotto, un servizio, un’idea o una nobile causa) e chi potrebbe esprimere una domanda, che va dunque visto come cliente e non più come semplice “consumatore” passivo.

In tale complessità i soggetti e gli elementi che intervengono nel processo sono dunque in primo luogo il destinatario della comunicazione (il cliente), l’emittente (cioè chi emette la pubblicità), ma anche il segnale (segno, disegno, parola, fotografia, filmato), il mezzo con cui esso è trasmesso, il rumore che circonda ogni trasmissione e provoca una dispersione della trasmissione stessa, il codice attraverso cui il ricevente è in grado di tradurre i segnali trasmessi.

Sono tutti questi elementi, e le interrelazioni tra loro, che permettono lo svolgimento di qualsiasi comunicazione, compresa ovviamente la pubblicità.

 

Il destinatario della pubblicità

La pubblicità, per avere successo, deve fare i conti con i bisogni dell’individuo, con le sue attese e motivazioni, che non sono solo inconsce. Se non c’è una aspettativa preesistente, magari anche solo debole o latente, la pubblicità non è in grado di indurre una domanda. L’efficacia della comunicazione è correlato alla preesistenza di un atteggiamento coerente con i contenuti della comunicazione.

Se il messaggio è in linea con le predisposizioni dell’individuo esso viene maggiormente percepito, compreso, interiorizzato, in altri termini viene rafforzato. In pratica, si tende ad esporsi di più a quei messaggi che sono in armonia con i propri atteggiamenti e gli interessi preesistenti. La maggior attenzione ai messaggi pubblicitari è dedicata da chi è già un cliente abituale di quella marca, e ancora di più da chi ha effettuato un acquisto di quella marca/prodotto di recente.

Viceversa se i contenuti non sono allineati con i preesistenti atteggiamenti del destinatario scattano una serie di meccanismi di difesa che possono portare fino al rifiuto totale del messaggio stesso.

Tali meccanismi di difesa possono andare dalla non accettazione totale (girare pagina per non vedere la pubblicità su un quotidiano o rivista, cambiare canale televisivo, buttare nel cestino una lettera pubblicitaria prima di aprirla, e così via), alla “censura” mentale di ciò che si è visto/sentito, dimenticandosi quindi rapidamente del suo contenuto. In altri casi, piuttosto frequenti, i contenuti vengono rielaborati in proprio, per renderli coerenti con i propri atteggiamenti, distorcendo talvolta in modo anche sostanziale i contenuti del messaggio.

Di conseguenza, chi comunica deve partire dalle caratteristiche del pubblico di chi l’ascolta, o vorrebbe che lo facesse, perché da ciò dipende che cosa si deve dire, come, quando e dove dirlo, e anche chi è meglio che lo dica. Poiché lo scopo della pubblicità è di persuadere il destinatario a compiere una determinata azione, il primo passo consiste dunque nel comprendere molto bene com’è composto il pubblico dei destinatari, vale a dire in primo luogo quali sono le sue attese e i suoi bisogni, e inoltre i suoi connotati, per poter meglio “modulare” tutta la comunicazione ad esso destinata.

Per meglio conoscere e comprendere tali connotati lo strumento a disposizione sono le ricerche, in un’ampia varietà di tecniche e metodologie. Nei connotati del nostro pubblico comprendiamo:

  • le caratteristiche socio-demografiche – ad esempio, uomini o donne? Giovani o anziani? (sull’età del destinatario del messaggio pubblicitario si è molto discusso, anche di recente. Noi abbiamo voluto contribuire alla discussione con la pubblicazione di un e-book ), residenti in grandi città o in piccoli centri? in quali aree geografiche del paese?
  • le caratteristiche socio-culturali – ad esempio, livello di istruzione/cultura, tipo di consumi culturali, stili di vita, modi di “vedere il mondo”, quanti e quali rapporti con i gruppi sociali di riferimento (famiglia, amici, colleghi, altre persone che condividono interessi sociali, culturali, sportivi, politici, eccetera);
  • le abitudini di acquisto/consumo – ad esempio, livello di conoscenza del prodotto, forti/medi/deboli utilizzatori del prodotto e/o della marca, frequenza e intensità di utilizzo di prodotti o marche concorrenti;
  • la possibile esposizione ai mezzi pubblicitari – ad esempio, lettori di quotidiani, e quali? lettori di riviste, e quali? fruitori di programmi televisivi o radiofonici, e quali? ma anche, perché no, frequentatori di fiere, e quali? e così via.

È evidente che tutte queste informazioni sul pubblico dei destinatari permettono di “tarare” meglio sia i contenuti e il linguaggio sia la scelta dei mezzi più adatti per raggiungere i destinatari stessi, e inoltre consentono di comprendere meglio ciò che il pubblico è maggiormente predisposto a sentirsi dire.

Ma c’è un altro elemento che va considerato ai fini di una corretta impostazione del proprio programma pubblicitario e in generale della comunicazione per la propria impresa. Si tratta dell’aspetto relativo a qual è il livello di consapevolezza e di interesse dei destinatari della nostra comunicazione nei confronti della proposta che stiamo a loro rivolgendo. Infatti per il miglior risultato si devono scegliere ed adattare i messaggi e i mezzi pubblicitari ai diversi livelli di consapevolezza e di interesse delle persone.

Esistono vari modelli che descrivono gli “stadi” attraverso cui un possibile acquirente passa dallo stato di non conoscenza del prodotto fino al suo acquisto. Il più diffuso e conosciuto è il cosiddetto “modello AIDA”, dove l’acronimo sta ad indicare Attenzione-Interesse-Desiderio-Azione, identificando queste come le fasi attraverso cui si realizza il progressivo avvicinamento del cliente fino all’atto d’acquisto.

Un altro modello è quello definito come “gerarchia di effetti”, dove le fasi identificate sono rispettivamente consapevolezza, conoscenza, gradimento, preferenza, convinzione, acquisto.

Un terzo, quello dell’ “innovazione-adozione”, prevede invece le fasi della consapevolezza, interesse, valutazione, prova, adozione.

Questi tre modelli differiscono tra loro sostanzialmente per le definizioni che danno delle varie fasi, ma tutti prevedono che il cliente passi attraverso tre livelli: il primo conoscitivo (attenzione, consapevolezza, conoscenza), il secondo affettivo (interesse, desiderio, valutazione, gradimento, preferenza), l’ultimo dell’azione (azione, convinzione, acquisto, prova, adozione).

Tutti e tre i modelli presuppongono che ogni fase successiva comporti una maggior probabilità che il cliente concretizzi con l’acquisto. Ma nella realtà può anche capitare che un acquisto venga effettuato quasi casualmente, senza dargli troppa importanza (in un negozio acquisto qualcosa perché vicino al prodotto che cercavo, o perché in offerta), e solo successivamente se ne scopre l’effettivo valore e se ne rimane soddisfatti. La preferenza può dunque talvolta precedere, e non necessariamente seguire, l’atto d’acquisto. Ciò nonostante conoscere la “fase” in cui si trova il pubblico dei destinatari della propria comunicazione è molto utile per adattare nel modo più efficace sia il messaggio che i mezzi.

Ad esempio, se i potenziali clienti non sono consapevoli dell’esistenza del prodotto o della marca, sarà indispensabile puntare in comunicazione più sulla notorietà, con messaggi brevi ma che concentrino l’attenzione sul nome, mentre se la consapevolezza è già ad un buon livello occorre sviluppare messaggi che dimostrino la superiorità e il valore del prodotto e della marca. Se infine la maggior parte degli acquirenti ha esaurito il periodo “di prova” occorre invece sviluppare la comunicazione con azioni di sostegno al ricordo, rafforzare cioè l’abitudine al prodotto o marca, per contribuire alla fedeltà in termini di acquisto e utilizzo.

Per sapere a quale dei possibili stadi si trovi il pubblico dei clienti, attuali o potenziali che siano, anche in questo caso sono indispensabili le ricerche, che misurano appunto il “livello” di coinvolgimento verso il prodotto o la marca esplorando conoscenza, frequenza e intensità di acquisto e di utilizzo da parte dei clienti.

Attraverso le ricerche è possibile, tra l’altro, scoprire quanti siano e quali caratteristiche abbiano i clienti maggiori utilizzatori, oppure i più soddisfatti, oppure quelli occasionali o rari, e attraverso queste informazioni si può orientare meglio la strategia, lo sforzo pubblicitario a sostegno dello sviluppo delle vendite del prodotto e per il consolidamento dell’immagine della marca.

Marketing col Cuore è alla costante ricerca di strumenti innovativi e rispettosi dell’individuo “persona” che assicurino le migliori performance comunicative, sia in termini di profitto aziendale che in quelli di tutela giuridica e personale. Per far ciò, investiamo molto nella formazione rivolta all’ottimizzazione di tutti i processi produttivi che compongono l’impresa.

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